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Il martello di legno picchiò per tre volte sul battente del tavolo, il rumore risuonò violentemente nella stanza. Dal banco della giuria non si sentiva nemmeno un colpo di tosse. “Portàtela via!” tuonò il giudice.
Non era stato un processo corretto. Non avrebbe mai potuto esserlo. Nessuno avrebbe mai cercato di evitare il massimo della pena per l’imputato. La giuria era selezionata appositamente, scelta per la sua moralità e per la propria integrità morale, per la selezione contavano addirittura le domeniche mattina in chiesa. E poi, per quel genere di reati, se così possiamo chiamarli, non era nemmeno prevista la possibilità di avere la difesa di un avvocato. La legge assumeva che tali comportamenti andassero contro la moralità ad un livello tale che chi fosse accusato di una tale scelleratezza avrebbe potuto passivamente ascoltare la propria incriminazione, senza la possibilità di controbattere.
Ma partiamo un po’ più dall’inizio. Lidia, per la verità, era un ragazzo. Un ragazzo di bell’aspetto, sempre in ordine, sempre pulito, mai la barba di un giorno, mai un’unghia mangiata o i capelli fuori posto. Sempre calmo e tranquillo. Era un ingegnere, lavorava principalmente da casa, dalla sua casetta indipendente sulle pendici di un monte sopra Genova. Scendeva sempre in centro a fare la spesa, a piedi, salutando tutti quelli che conosceva, sempre allegro e sorridente. Oppure in macchina, con la sua sempre lucida station wagon. Arrivava a casa, metteva la macchina nel box, e saliva in casa attraverso la scala interna. Aveva molti amici, spesso la domenica si sentiva il profumo della carne fatta sul barbecue a chilometri di distanza, e risuonava il suono del suo pianoforte in tutta la piccola valle.
Ma quando era da solo in casa, si trasformava. Sotto i suoi vestiti, si celavano sempre indumenti intimi femminili, che lui portava con disinvoltura. Teneva a freno le sue… reazioni maschili portando una cintura di castità. Gli piaceva. Adorava le scarpe con i tacchi, come ciabatte usava un paio di sabot rosa con dieci centimetri di tacco. Ogni tanto, nel cuore della notte, usciva a fumare una sigaretta sul terrazzo, con una vestaglia semitrasparente, protetto dall’oscurità della valle. Se si fosse avvicinata una macchina, l’avrebbe vista da molto lontano, ed anche da vicino sarebbe apparsa come una ragazza su un terrazzo in abiti succinti. Niente di che.
Aveva anche degli appuntamenti fissi, generalmente fuori casa. Una volta alla settimana andava a teatro. Preferiva guardare i film noleggiati a casa, nel suo grande salotto, ma gli piaceva andare a teatro. Era la scusa per spegnere il cellulare un paio d’ore e rilassarsi sognando di recitare vestito da donna. Quanto gli sarebbe piaciuto, non lo sapeva nessuno, a parte lui. Ed una cara amica, la sua cara amica estetista. Per mesi e mesi era andato ogni due settimane a farsi depilare quasi completamente. Evitava giusto di farsi depilare… li sotto. Ed erano entrati in confidenza, lui e Valentina. Lei aveva sempre mostrato interesse verso di lui, lui aveva lentamente ceduto ed aveva diminuito il distacco, mostrandosi sempre più amichevole nei confronti di lei. Lei non capiva perché lui andasse ogni due settimane nel suo piccolo studio estetico, a darle quasi cento euro a seduta, per farsi dolorosamente strappare qualche pelo. Poi lui cominciò a chiederle consigli, e lei arrivò a proporgli un trattamento a luce pulsata, che lui provò e rimase entusiasta. E una sera, una piovosa sera di un freddo gennaio, mentre lei gli stava trattando il petto, lei stappò una bottiglietta di crema fluida da passare su di lui dopo il trattamento. E due gocce di fluido finirono sulla faccia di lui, una su una guancia, una sul labbro superiore. Lei, istintivamente, allungò una mano e dolcemente pulì la goccia sulla guancia, poi passò l’indice sul labbro e dolcemente tolse la goccia. Si chinò su di lui, e lo baciò delicatamente. “Scusami…”, disse. “No, non scusarti. Sapevo che sarebbe successo, prima o poi”. “Mi sono innamorata di te”. Lui respirò profondamente, si alzò, mettendosi a sedere sul lettino, guardandola dalla testa ai piedi. Lui passava spesso davanti al suo studio di estetica. Aveva notato con piacere che lei indossava gonna e tacchi solo quando aveva un appuntamento con lui. Avevano parlato spesso di vestiti.. e lui le aveva detto che gli piaceva il modo in cui lei si vestiva. Ma ora.. era sicuro che lei lo facesse per lui. Ed ora era giunto il momento di dirle la verità. “Valentina… vedi… quello che sto per dirti potrebbe rovinare quello che c’è tra di noi. Ma devo dirtelo. Vedi… Io… non sono un uomo normale. A me piacciono i tacchi ma… mi piace portarli. In questa società retrograda io non posso essere quello che voglio ma… dentro di me vive una donna. Quando arrivo a casa, quando sono a casa, io mi trasformo in Lidia. E cerco di esserlo più che posso”. Sospirò, guardando Valentina negli occhi. Lei rispose. “Lo so. Lo avevo capito. Sei… troppo dolce per essere un uomo normale. Ma non ci posso fare niente… questo è quello che provo per te”. Lui si alzò. “Ho bisogno di farti vedere una cosa. Ma potrebbe non piacerti”. Valentina annuì, e lui lentamente si sfilò i boxer grigi. Rimase con un tanga di pizzo, sotto il quale si intravedeva il suo pene, chiuso in un dispositivo di castità. “Non lo uso da anni. Per i primi tempi, mi dava qualche fastidio. Ma ora non funziona proprio più”. Valentina era stranamente indifferente. “Avevo capito che ci fosse qualcosa così. Ma proprio… credi che non ci possa essere nulla, tra di noi?” chiese, mentre gli occhi le diventavano lucidi. “Valentina… se io non fossi così… probabilmente si. Ma a meno che dietro quegli occhi da cerbiatta smarrita non si nasconda una Mistress armata di frusta.. non so cosa dirti, Valentina”. Lei fece no con la testa. “Non sono il tipo. Ma quindi tu… niente?” “No Vale.. io sono alla costante ricerca di un Padrone. Andrebbe bene anche una Padrona, ma deve essere molto severa. Preferisco essere usata da uomini, mi umilia di più”. Lei annuì. “Fammi un po’ vedere… sdraiati”. Lidia si sdraiò, togliendosi il tanga e rimanendo con la cintura di castità esposta. “Allarga le gambe… facciamo un po’ di pulizia qui sotto”. Lei cominciò il trattamento a luce pulsata, depilando Lidia con precisione. “Ho capito. Ti prego… fai come se non ti avessi detto niente… Capisco la tua condizione. Non dirò niente a nessuno, mai. Potresti finire nei guai. Ma ti prego.. non perdiamoci. Non voglio… Perderti, anche se non posso averti”. Lidia si alzò, abbracciandola. “Possiamo essere… amiche”. Si rivestì, pagò e scomparve nella pioggia.
Da quel momento cominciarono a frequentarsi al di fuori dello studio estetico. Valentina andava spesso a casa di Lidia, si provavano vestiti, giocavano un po’ ed ogni tanto Valentina riceveva anche qualche… beh, qualche lavoretto orale da Lidia. Erano due amichette piccanti. E la loro amicizia proseguiva senza problemi. Un giorno, Valentina si presentò da Lidia con un amico. “Lui è Mauro. Per l’esattezza… Padrone Mauro”. Lidia si inginocchiò. “Piacere di conoscervi, Padrone”. Lidia passò la sera quasi sempre in ginocchio, mentre il Padrone le parlava del suo interesse ad avere una schiava travestita. “Dunque, Lidia. Io abito poco lontano da qui. E sto cercando una sissy maid, che possa servirmi in tutto e per tutto. Offro vitto, alloggio ed un minimo stipendio. Ma ci sono alcune condizioni che dovranno essere rispettate appieno”. Lidia non credeva alle proprie orecchie. Un Padrone, portato dalla sua migliore amica. “Si, Padrone, Vi prego, continuate”. “La schiava sarà collarizzata in modo permanente. Porterà polsiere, gomitiere e cavigliere in cuoio, sempre bloccate da lucchetti. Sarà mia discrezione stabilire quando e come incatenarla. La schiava non avrà diritto di parola, il bavaglio a palla sarà indossato costantemente, a parte il tempo necessario a nutrirsi e per la giusta igiene orale. Cappuccio di latex ed altri accessori saranno valutati di volta in volta”. “Si Padrone… continuate”. “La tua assunzione sarà subordinata ad una prova di fedeltà. Ma non ti posso svelare nulla. Davanti ad una testimone ti posso solo dire che non sarà nulla di pericoloso per la tua incolumità. Ma se vuoi diventare la mia schiava, dovrai accettare a s**tola chiusa”. Lidia non stava più nella pelle. “Accetto, Padrone”. “Bene, firma qui”. Tirò fuori dalla borsa un contratto. Lidia prese la penna e firmò senza leggere. L’eccitazione prese il sopravvento. “Benvenuta, schiava Lidia. Sul contratto troverai le modalità di presentazione al mio cospetto per il tuo primo giorno di servizio e la prova di fedeltà. Leggile con attenzione. Non saranno ammessi ritardi. Dovrai eseguire esattamente tutto quello che troverai scritto sul contratto. A presto”. Lui si alzò, ed uscì dalla casa senza fiatare. Lidia rimase con Valentina. “Sei proprio sicura di quello che stai per fare?” le chiese Valentina. “Si, Vale, non vedo l’ora. Fammi leggere…”. Lidia cominciò a leggere il contratto, saltando immediatamente alla parte della prova. “Modalità di presentazione e prova. La schiava dovrà presentarsi il giorno 18 Febbraio alle ore 14.00 davanti al cancello sito in via P******o civico 57. Oltre il cancello non sarà ammesso accedere con qualsiasi tipo di veicolo, la schiava dovrà presentarsi a piedi. Il viale è circa 300 metri. Alla fine del viale sarà presente una s**tola contenente il materiale che la schiava dovrà indossare con le istruzioni. Rispetta la sequenza e le istruzioni senza imprecisioni. Vestiario: la schiava non potrà scendere dal veicolo se non in abiti femminili. Necessario: tanga di pvc nero – calze autoreggenti bianche velate – corsetto che NON copra i seni – giacca pvc nera – guanti neri pvc lungezza oltre gomito – scarpe decolletè con platform minimo 18 centimetri. Ogni incongruenza rispetto a queste indicazioni sarà motivo di rescissione dal contratto”. “Martedì 18? Ma è sabato oggi! Dove la trovo una giacca nera??”. Valentina tranquillizzò Lidia. “Vestiti veloce che andiamo in un negozio cinese e la troviamo subito”. Lidia corse in bagno, si struccò e uscì pronta. Presero la macchina ed arrivarono velocemente al negozio, dove Lidia trovò subito una giacca in pvc nero, come recitavano le indicazioni. Tornarono a casa, baciandosi dolcemente. Valentina disse “Potrebbe essere una specie di addio… mi mancherai”. “No, non ci perderemo, tranquilla”. Valentina andò verso la sua auto, mise in moto e sparì nelle curve attraverso il boschetto.
Lidia passò il weekend a fantasticare su cosa la aspettasse. Guardando su google maps, vide che il vialetto si perdeva nel bosco fino ad arrivare ad una radura con una casa. Probabilmente avrebbe dovuto fare qualcosa di umiliante all’esterno. In un mondo dove il porno era motivo di arresto immediato se fatto in luogo pubblico, la prova sarebbe stata veramente pericolosa. Ma quel posto era privato, ed isolato. Quindi sicuro, forse. La cosa strana era che in giro sulla rete non c’era nessun riferimento a qualcuno che abitasse li. Sembrava quasi un luogo abbandonato.
Il martedì arrivò. Lidia partì da casa già vestita, passando dalla scala interna che portava al box. Salì in macchina e cominciò a guidare con i tacchi per quella decina di chilometri che la separavano dalla sua “prova”. Arrivò con una mezzora di anticipo. Scese, fumò una sigaretta, risalì in macchina. Tutto era perfetto, lei era truccata alla perfezione. Non aveva avuto istruzioni per la parrucca, quindi non la indossò. Alle 13:58 scese dalla macchina, la chiuse e lasciò le chiavi in uno scomparto segreto nel passaruota. Le 14:00. Si avvicinò al cancello, era aperto, solo accostato. Entrò, camminando rapidamente, per la prima volta fuori da casa. Il vialetto si snodava nel bosco e l’aria frizzante di Febbraio le provocava la pelle d’oca. Il vialetto sbucò fuori dal bosco, i raggi del sole cominciavano a riscaldare il corpo di Lidia, coperta solo in parte da qualche strato di PVC nero. In mezzo alla radura che si apriva davanti ai suoi occhi scorse la s**tola che conteneva il materiale, come da istruzioni. Un centinaio di metri più avanti, la casa. Pareva un vecchio casolare semi abbandonato, ma non diede peso alla cosa. Si avvicinò alla s**tola, che era appoggiata a terra vicino ad un palo alto due metri, dal quale pendeva una catena annegata nel cemento alla base del palo. Lidia si chinò, frugando nella s**tola alla ricerca delle indicazioni. Le trovò. Erano su un foglio stampato, stile lista, asettica.
1) Rimuovere gonna e giacca
2) Indossare cappuccio latex
3) Indossare bavaglio, bloccandolo con lucchetto n°1
4) Indossare cavigliere, polsiere e gomitiere bloccandole con i lucchetti numerati da 2 a 7
5) Indossare pinze pesate su capezzoli
6) Indossare tappo anale
7) Indossare collare bloccandolo con lucchetto n°8
8) Bloccare collare a catena palo con lucchetto n°9
9) Indossare cintura, bloccandola con lucchetto n°10
10) Indossare catena n°1 tra caviglie, lucchetti n°11 e n°12
11) Indossare catena n°2 tra gomitiere, lucchetti n°13 e n°14
12) Bloccare polsiere a anello posteriore cintura con lucchetto n°15
13) Attendere recupero e termine prova
Lidia rabbrividì. Era una situazione strana. Doveva fare da sola. Ovviamente la prova era improntata sulla fiducia. Era una prova molto pesante. Ma Lidia non abbandonò. Si sfilò la giacca e la gonna, riponendole vicino alla s**tola. Indossò il cappuccio. Era un cappuccio molto aderente, aveva due buchi per il naso, una specie di anello alla bocca che già la costringeva a tenere la bocca aperta. Gli occhi erano coperti da latex traforato, le impedivano un po’ la vista. Da lontano, probabilmente sembrava completamente bendata. Poi indossò il bavaglio. Era un bavaglio con una harness di cuoio, che si chiudeva intorno alla testa con una serie di lacci. La parte che andava in bocca aveva la forma di una palla di gomma, per la metà esterna, mentre la parte interna era a forma di dildo. Infilò mugolando un po’, notando che la palla si incastrava perfettamente nella parte spessa del cappuccio, dando la parvenza di avere solo un bavaglio a palla, dall’esterno. Dentro la bocca, il dildo premeva la lingua giù, impedendole di emettere qualsiasi suono intelligibile. Bloccò l’harness con il lucchetto, e poi provò a pronunciare “Aiuto Padrone”. Uscì qualcosa come “huhumm mhmhuhmm”. Era veramente un bavaglio efficace. Lidia proseguì nella vestizione, rispettando perfettamente la sequenza, mugolando un po’ mentre infilava il tappo anale di metallo e mentre posizionava le pinze sui capezzoli. Si mise le polsiere, le cavigliere, bloccò il collare e con fatica mostruosa bloccò la catena corta tra i gomiti. Era in piedi, già legata al palo, e tentennò per qualche secondo prima di bloccare l’ultimo lucchetto, che le avrebbe impedito di usare le mani. “Tanto ormai… non potrei andare via comunque”. Con un colpo di coraggio il lucchetto si chiuse , bloccandole le mani all’anello della cintura. “E’ fatta, sono fottuta”. Come per incanto mille pensieri le si ammucchiarono nella mente. E se il Padrone non venisse? E se avesse avuto un incidente? Non aveva detto a nessuno dove sarebbe andata. Ma l’eccitazione, come al solito, la faceva solo fantasticare su quello che le sarebbe successo dopo.
Passavano i minuti, non sapeva quanti. Più o meno dovevano essere le 15 e 30, quando il sole fece capolino tra gli alberi e cominciò ad illuminarla. Lidia stava leggendo da lontano il foglio delle istruzioni, quando il sole lo illuminò. E Lidia trasalì, vedendo che l’inchiostro, colpito dal sole, scompariva, lasciando il foglio bianco, intonso. Cosa poteva essere? Uno scherzo? I battiti cardiaci di Lidia cominciarono ad aumentare. Si sentiva persa. Fino a pochi secondi prima, non vedeva l’ora di raccontare tutto a Valentina… ora sperava che Valentina apparisse e le svelasse lo scherzo. Ma non fu così. Altro tempo passò, molto tempo. Lidia cercava di camminare un po’, per alleviare la pressione sui piedi. Non era mi stata così tanto tempo ferma in piedi sui tacchi, di solito camminava. Ma il sole cominciava scendere nuovamente dietro il bosco, lasciandola nella penombra. Un rumore. Un motore, un’auto si avvicinava, ma il rumore non le sembrava arrivare dal vialetto. Nel boschetto dietro la casa, vedeva dei fari. E intorno a se, sentiva degli strani fruscii provenire dal bosco. Cosa era??? Cosa poteva essere???
Improvvisamente, dal latex traforato che le copriva gli occhi, vide accendersi due forti fari puntati contro di lei. “Polizia – RAP! Non muoverti!”. Il RAP era un reparto speciale della Polizia che era stato creato appositamente per contrastare la pornografia e tutte le attività ad essa correlate, come prostituzione, schiavitù sessuale, attività pedopornografiche e quant’altro, sia via internet che “dal vivo”. Le pene per i reati erano severe, e se da un lato questo aveva contribuito a debellare qualunque attività pedopornografica, dall’altro lato si rischiava grosso anche ad appartarsi con la propria fidanzata in “camporella”. Ed i metodi di correzione erano ai limiti dei diritti umani. “Bene, bene, bene. Ne abbiamo beccato un altro”. Lidia riconobbe la voce del Padrone. Una coppia di agenti in divisa si avvicinò, ed uno disse “Ispettore, dobbiamo procedere?”. “Un attimo”. Il Padrone era in realtà un Ispettore del RAP. “Complimenti, ingegnere. Sei caduto nella rete al primo tentativo”. Lidia tentò di mugolare qualcosa ma il bavaglio le impedì di pronunciare qualunque suono. “Portatela via”, disse. La catena al collare fu sganciata e Lidia fu trascinata verso un furgone della Polizia con il portellone aperto, la caricarono a bordo senza rimuoverle nulla. “Dobbiamo rimuovere il bavaglio, ispettore?” disse un agente. “No, ci penseranno all’istituto di correzione per la preparazione al processo. Teniamola così, visto che pare che le piaccia”. Lidia fu sdraiata su un lettino di rete metallica a pancia in su, fu bloccata al letto con delle cinghie e venne calata una gabbia sopra di lei. “Dunque… le accuse. Atteggiamenti contro la decenza in luogo pubblico. Schiavitù sessuale esplicita in luogo pubblico. Violazione di proprietà privata in atteggiamenti contro la decenza. Ne hai almeno per dieci anni, ingegnere. Bene, possiamo muovere”. Mentre il furgone si avviava, Lidia piangeva singhiozzando nel suo cappuccio. Uno sportello laterale della gabbia si aprì, ed un agente le posizionò una benda sugli occhi. Lidia cadde nel buio.
Dopo curve e tratti di autostrada il furgone finalmente si fermò. Il carrello con la gabbia fu estratto dal furgone e Lidia fu condotta all’interno dell’istituto di recupero. Non poteva vedere nulla. I prigionieri colti in flagranza di reato dal RAP godevano di meno diritti di assassini e stupratori. Venivano processati per direttissima nel giro di poche ore da un tribunale composto da un giudice selezionato tra quelli di indole più severa e giudicati da una giuria composta esclusivamente da uomini specializzati nel punire pesantemente i propri simili. Per meglio spiegare, se fosse stato catturato un tossicodipendente probabilmente sarebbe stato drogato fino quasi alla morte per tutta la durata della pena. I sodomiti venivano torturati analmente, le prostitute condannate a stare mesi dentro a macchinari che le stupravano fino allo sfinimento, causando una reazione del cervello che avrebbe invertito – perlomeno nella teoria – la tendenza dell’individuo. Gli schiavi o le schiave sessuali erano generalmente condannati ad essere tenuti per tempi lunghissimi in catene ed in quasi totale isolamento, fino ad ottenere il rifiuto dell’individuo verso tali pratiche. Ulteriore inasprimento della pena si verificava nel caso in cui fossero commessi più reati contemporaneamente. E purtroppo Lidia era appena stata arrestata con un mare di accuse. In più i prigionieri del RAP non avevano la facoltà di avvalersi della difesa di un avvocato, tali reati erano considerati gravi a tal punto da rendere le pene inappellabili.
Lidia fu condotta nella zona di preparazione prigionieri. Fu narcotizzata, in modo da non potersi muovere né parlare durante la procedura. Con cesoie idrauliche le vennero rimossi i lucchetti, le cavigliere e tutto il cuoio che aveva addosso. Senza particolare cura le furono rimossi i pesi dai capezzoli ed il tappo anale, fu spogliata completamente e pulita con un clistere. Le fu applicato un collare di metallo, bloccato con una chiave codificata. A gomiti, polsi, sopra le ginocchia e sulle caviglie le furono applicate manette di metallo, sempre chiuse con la stessa chiave, oltre a una cintura metallica all’altezza dell’ombelico. La cintura di castità in plastica fu rimossa, sostituita con una di metallo: da un piccolo foro usciva un tubo di silicone, che si infilava nell’uretra, per consentire di urinare senza problemi. Due bande metalliche furono applicate avanti e dietro alla cintura, per chiudere pene ed ano in una cintura di castità inamovibile. La parte posteriore aveva uno slargo all’altezza dell’ano, per consentire l’evacuazione. Dopo una adeguata lubrificazione, fu applicato un tappo metallico di generose dimensioni.
La inserviente che si occupava di Lidia lesse il modulo che il reparto di intervento le aveva lasciato. “Uh… armadio grandi occasioni, allora!”. Estrasse un mazzo di chiavi dalla tasca del camice, si diresse verso un armadio e lo aprì. “IsoHand taglia 4. Eccoli”. Gli IsoHand erano dei guanti a sfera in metallo. La mano del prigioniero veniva inserita in una mezza conchiglia di acciaio, fatta passare intorno ad una sbarretta di ferro che serviva come maniglia e poi chiusa a pugno. L’altra metà della conchiglia veniva poi chiusa, bloccata alla polsiera di acciaio e fissata con un’altra chiave codificata. Erano dotazione standard per alcuni tipo di reato, ad esempio autoerotismo in luoghi pubblici o tentata violenza verso donne: rendevano inutilizzabili le mani. In più erano dotate di un anello di acciaio sul culmine della sfera, come ulteriore punto di attacco per le catene dei prigionieri.
“Mmh… scarpe antifuga, taglia 44, bianche. Allora l’altro armadio”. La inserviente chiuse l’armadio uno e aprì l’altro, prelevando una s**tola di scarpe antifuga. Erano degli stivaletti ballet alti fino alla caviglia, poco più. Erano dotati di alcuni inserti in resina, che proteggevano la caviglia del prigioniero e lo aiutavano a camminare. Si indossavano, poi venivano chiusi i lacci a strappo e venivano bloccati con alcuni piccoli lucchetti. La parte steccata come un corsetto si innestava nelle cavigliere e non potevano essere rimossi, senza intervento da parte del personale. Ma era molto difficile camminare con quei dispositivi ai piedi, pertanto rendevano praticamente impossibile la fuga.
“Uh”, continuò la ragazza, “Questo deve aver fatto qualcosa di tremendo. Maledetto porco. Ti meriti tutto questo? Ma non potevano impiccarti e basta?”. No. La morte sarebbe stata solo una liberazione. “Quindi… HeadShield, fronte 54, altezza 28. Bavaglio interno 5, livello isolamento 5. Sayonara, porco”. Cercò un po’ nell’armadio, e poi estrasse la s**tola che conteneva l’HeadShield necessario. L’HeadShield era un dispositivo ad un passo da uno strumento di tortura. Era una maschera di acciaio, costituita da tre pezzi. Due semiconchiglie posteriori che si chiudevano intorno alla testa e la fronte, con solo due fori in corrispondenza dei condotti uditivi, che a seconda del livello di isolamento potevano essere chiusi o attrezzati con due in-ear-phones. Il livello 5 prevedeva la chiusura completa con due inserti in silicone che penetravano dentro all’orecchio. Prima di posizionare le due semiconchiglie, si posizionava il bavaglio interno. Il bavaglio 5 era un blocco di silicone semimalleabile, che prendeva la forma dei denti del prigioniero ed immobilizzava anche la lingua, premendola verso il basso. La parte frontale era generalmente posizionata solo dopo il processo e costituiva il vero e proprio “shield”. Gli occhi erano tappabili a seconda del livello di iso, e nemmeno a dirlo il livello 5 prevedeva chiusura totale. Il naso aveva due buchi. Dalla narice destra passava un tubo che si fermava nella gola per portare aria, e attraverso la narice sinistra un tubo naso-gastrico scendeva fino nello stomaco per l’alimentazione. Attraverso lo shield frontale si stringeva una vite che bloccava il bavaglio interno.
“Ok, Lidia… è il tuo momento”, disse la ragazza, avvicinandosi con il suo carico di dispositivi di correzione. Lidia era sdraiata sul lettino in condizioni di semi-incoscienza. Cominciò come da procedura, infilando i guanti IsoHand nelle mani della prigioniera, bloccandoli e chiudendoli con la chiave e bloccandoli a due anelli laterali del letto. Poi toccò alle scarpe, che furono infilate, strette ed assicurate con i lucchetti in dotazione. Poi toccò all’HeadShield. La ragazza, con un rasoio elettrico, tagliò a zero i capelli di Lidia, lavandole poi la testa per rimuovere i capelli tagliati. Poi le fu posizionato il bavaglio. Lidia accolse il silicone che le veniva introdotto in bocca con un lieve mugolio, l’ultimo suono che sarebbe uscito dalla sua bocca. La cinghia del bavaglio fu stretta intorno alla testa e la fibbia chiusa. La bocca di Lidia risultava aperta, le labbra aderivano alla parte di silicone rigido mentre i denti e la lingua si scavavano il posto nella parte interna. Lidia fu costretta a tossire attraverso al naso. Poi l’inserviente le posizionò le due semiconchiglie intorno alla testa, facendo attenzione a non pizzicarle la pelle. Le viti a brugola che tenevano insieme i due pezzi vennero bagnate in un liquido che avrebbe saldato i due pezzi, rendendo impossibile la rimozione dello shield. La ragazza posizionò lo scudo frontale, controllando che i buchi corrispondessero. I tappi per gli occhi non erano ancora in posizione, e Lidia riuscì a rendersi parzialmente conto di quello che le stavano facendo. Mugolò, o perlomeno ci provò, tentando di muovere braccia e gambe, che erano saldamente assicurate al letto. “Ferma, ferma. Non serve a niente agitarsi ormai”, le disse la ragazza. “Ah, ultima fase”. Due piercing furono posizionati sui capezzoli di Lidia, e tra loro, invece della solita catenella, una striscia di alluminio recitava “ATTESA PROCESSO”. “Abbiamo finito”, concluse la ragazza, mentre tramite interfono chiamava gli addetti al trasporto, che comparvero dopo pochi minuti. “MB024 è pronto”. MB024: Maschio, Bisessuale, numero 24. FE, stava per Femmina Etero, ME per Maschio Etero. Gli addetti al trasporto aiutarono Lidia a mettersi seduta mentre le braccia venivano preparate per il trasporto, ruotate all’indietro, verso il collare, assicurate all’anello posteriore, i gomiti praticamente uniti ed assicurati ad un anello della cintura. Le gambe unite da due catene, una corta alle ginocchia, una leggermente più lunga alle caviglie. Poi un guinzaglio di catena le fu applicato al collare e la aiutarono a mettersi in piedi, mantenendo un equilibrio precario. La trascinarono alla sua cella, dove la assicurarono ad un anello sul pavimento e uscirono chiudendo la porta, lasciandola completamente al buio. Lidia piangeva. Non voleva arrivare a questo… si chiedeva come avesse potuto cadere nella trappola… E perché Valentina l’avesse tradita. Forse perché era stata rifiutata.. Ma non era vero… sperava di svegliarsi da un momento all’altro. E invece la svegliò la luce della cella, che si accese all’improvviso mentre si apriva la porta. “MB024, il processo è stato fissato tra 5 minuti, allo 08.00 di mercoledì 19 Febbraio. Caricatela”. Due inservienti spinsero un carrello all’interno della cella, e Lidia fu alzata in piedi e fissata all’interno del carrello, con gambe unite e legata tramite l’anello in cima all’HeadShield. La porta frontale in rete del carrello fu chiusa e Lidia fu trasportata nella sala delle udienze. Fu posizionata alla sinistra della scrivania del giudice, in fronte alla giuria. Tutti i presenti si sedettero ed un uomo cominciò la lettura dei capi di accusa. “MB024, il giorno 18 Febbraio alle ore 16:35 sei stato trovato in atteggiamenti non conformi alla morale ed alle leggi di questo Stato. Pertanto sei accusato di: violazione di proprietà privata, atti osceni in luogo pubblico, schiavitù sessuale in luogo pubblico, atteggiamenti contro la morale nei pressi di un edificio pubblico”. Il giudice interruppe la lettura “Quale edificio pubblico?” e l’uomo rispose “Signor Giudice, l’edificio che si trova dove è stato trovato l’imputato risulta essere stato una scuola nel secolo corso. L’edificio è attualmente abbandonato ma la proprietà risulta comunque demaniale”. Il giudice annuì “vada avanti”. “In aggiunta ai sopraelencati reati, si aggiungono i reati di sodomia e travestitismo”. Lidia trasalì. Era una farsa, un modo per incastrarla. Possibile che un atteggiamento del genere sia punito più che un omicidio? Cercò di dimenarsi e di mugolare. “Imputato, per le manifeste proteste la pena comminata sarà aumentata di un anno”, disse il giudice. Lidia si immobilizzò, sospirando. “Giuria, avete 15 minuti per formulare la vostra ipotesi per la correzione dell’imputato”. Iniziò un brusio sostenuto, ed al termine un uomo si alzò con un foglio in mano, avvicinandosi al microfono al centro della sala. “Per il reato di violazione di domicilio, questa giuria propone un pena di anni uno di reclusione. Per il reato di atteggiamenti contro la morale, anni due. Per atti osceni e schiavitù sessuale manifesta, anni due. Totale anni cinque di reclusione. Come aggravante per aver commesso tali reati in luogo pubblico e dinnanzi ad edificio con funzioni pubbliche, la pena è raddoppiata alla misura di anni dieci. La pena di anni uno per oltraggio alla corte e proteste è assorbita nei dieci anni di reclusione da scontarsi a partire dalle 10.00 del 19 Febbraio, da scontarsi in regime di isolamento livello 5 per i primi cinque anni. Signor giudice, a lei la convalida”. Lidia svenne. Il giudice si schiarì la voce: ”Per il potere conferitomi da questo Stato, per la gravità dei fatti commessi condanno MB024 a 10 anni di reclusione di cui 5 in regime di isolamento, dal quale diminuirà nella misura di un livello all’anno”. La giuria applaudì. “Posizionare shield facciale al prigioniero”. Due inservienti si alzarono, avvicinandosi a Lidia. Aprirono la gabbia, ed uno di loro cominciò ad infilare i tubi nel naso di Lidia. Quando il tubo raggiunse lo stomaco, attaccarono una bottiglia d’acqua al tubo, schiacciandola. “sbatti le palpebre una volta per si, due per no. Senti l’acqua nello stomaco?”. Lidia sbattè una volta. “Respiri correttamente dall’altra narice?”. Lidia sbattè una volta sola, di nuovo. Le attaccarono un tubo ed un sacchetto di plastica al catetere. “Devi sforzarti ed urinare adesso”. Lidia si sforzò un po’, ma poi un rivolo di urina riempì il sacchettino. Gli inservienti rivolsero lo sguardo al giudice, che annuì. Staccarono il tubo dalla bottiglia ed infilarono i due tubi nei fori nasali dello scudo. Lidia mugolava più che mai, a solo flebili mugolii uscivano dal bavaglio. Gli occhi di Lidia brillarono di panico e lacrime quando lo shield raggiunse la sua posizione, lasciando solo gli occhi aperti. Gli inservienti strinsero le viti per bloccare lo shield, ed avvitarono la vite per fissare il bavaglio. Per ultimo, fu posizionato il tappo oculare, le viti furono strette e la luce si spense intorno a Lidia. Lidia udì tre colpi di martello sul tavolo del giudice, proprio qualche secondo prima che gli inservienti le avvitassero i tappi di silicone nelle orecchie. Era finita. Lidia sentì il carrello muoversi, e la trasportarono nell’ala di isolamento dell’istituto.
L’area di isolamento era dotata di celle modulari, larghe due metri e mezzo, alte due metri e mezzo, profonde un metro. I prigionieri venivano bloccati all’interno del modulo tramite una incastellatura di acciaio, che tramite alcune catene veniva agganciata al prigioniero. In tal caso non erano necessari particolari lucchetti, il prigioniero non poteva muovere le mani ed il modulo era bloccato elettronicamente. Generalmente solo la catena al collare era bloccata con lucchetti manuali, in modo da debellare qualunque tentativo di evasione. Le celle venivano poi inserite negli appositi alloggiamenti, ed il sistema di supporto vitale (aria, acqua, temperatura) cominciava a funzionare. Lidia non lo sapeva, e respirava affannosamente nel buio del suo HeadShied. Per questioni di sicurezza i prigionieri venivano inviati nel blocco di detenzione bendati, in modo che non potessero riconoscere la via di uscita in nessun modo: anzi, addirittura venivano effettuati più volte alcuni giri per disorientare i prigionieri con il senso dell’orientamento più sviluppato. Ovviamente non erano applicate bende aggiuntive ai prigionieri di livello 5.
Il carrello che trasportava Lidia si fermò, ed inserendo un codice nel tastierino numerico, la cella si attivò, uscendo dal suo alloggiamento ed accendendo le luci interne a led. Lateralmente era presente un monitor che riportava lo stato di salute del prigioniero e lo stato interno della cella. Lo stesso display riportava la configurazione della cella, e le modalità di alimentazione del prigioniero, evacuazione e pulizia. Era un sistema quasi completamente automatizzato, per ridurre al minimo il contatto umano con i prigionieri e portare al massimo possibile l’isolamento, ed al contempo ridurre le probabilità di evasione.
Lidia fu scaricata dal carrello, semisvenuta, ed adagiata sull’incastellatura della cella che nel frattempo era stata posizionata orizzontalmente. La bloccarono in posizione ad “Y” rovesciata, lasciandole le braccia immobilizzate dietro la schiena. Le gambe furono aperte, bloccate anche esse, ed il tappo anale fu sostituito con un altro ugello che permetteva evacuazione e pulizia, tutto gestito dal sistema centrale. I tubi alle narici furono connessi all’uscita di acqua ed alimento liquido, e l’altro all’uscita dell’aria, tramite un tubo ad “y” che permetteva il ritorno dell’aria nel sistema per le analisi del caso. Lidia fu bloccata sull’incastellatura, l’HeadShield bloccato con l’anello in alto, due catene laterali al collare, altre due alla cintura alla vita e quattro per ogni gamba. Nessuna possibilità di muovere un muscolo. Lidia poteva solo.. respirare. I sistemi di supporto vitale furono il passo successivo. Quattro elettrodi le furono attaccati al petto, ed una infermiera le posizionò un ago cannula sopra il gomito, nella vena brachiale. Iniziò l’infusione di un ormone che avrebbe rallentato la crescita di peli e capelli, fino a circa un millimetro ogni sei mesi. La preparazione della prigioniera era terminata.
Uno degli inservienti premette un pulsante sulla console di comando e la cella si riportò in posizione verticale. Lidia sentì il proprio peso gravare in modo diverso sulle gambe. I piedi non toccavano terra, per questioni di sicurezza. Ciclicamente, la cella si sarebbe girata in modo da modificare la posizione di Lidia ed evitare piaghe o stasi sanguigna.
Si avvicinò un ispettore in divisa, che lesse la sentenza sul rapporto che aveva in mano, e si avvicinò alla tastiera della cella premendo alcuni tasti. “Sentenza fase iso: 5 anni *invio*. Periodo di verifica: mesi 3 *invio*. Pulizia al giorno: 2 *invio*. Temperatura 26°C *invio*. Alimentazione: 2 *invio*. Acqua: 6 *invio*. Inizio reclusione in dieci secondi”. Il display della cella visualizzò un timer, che rapidamente andò a zero. E la cella si mosse, si girò, e silenziosamente si infilò al suo posto, come un cassetto dalle guide perfettamente oliate. L’unico rumore che la cella produsse fu un forte “clang”, quando il chiavistello idraulico andò a bloccare la cella nella sua posizione. L’ispettore confermò il blocco sul display ed apparve solo la scritta “LOCKED”. L’ispettore cominciò a spiegare il funzionamento della cella al nuovo inserviente. “La cella è completamente autonoma. Di notte le celle si spostano, in modo da non tenere mai il prigioniero nella stessa posizione, per evitare evasioni. In più le celle non possono essere sbloccate prima del periodo di verifica manuale. Il cassetto della cella dove abbiamo messo MB024, tra tre mesi, si posizionerà in modo da consentire la verifica, ma non si aprirà fino a quando non ci sia il consenso manuale. Se il consenso non dovesse arrivare entro 30 minuti, la cella si bloccherebbe nuovamente per altri 3 mesi. Le celle verificano costantemente il livello di gas che fuoriesce dai polmoni del prigioniero, ogni settimana viene effettuato il test delle urine e le analisi del sangue. Se è tutto a posto, il computer della cella può decidere di non fare svolgere il controllo manuale, anche se di solito non lo fa. Le celle lavano i prigionieri ogni 12 ore, con una speciale mistura di acqua e detergenti neutri. Il sistema è infallibile”. L’inserviente non credeva ai suoi occhi, né alle sue orecchie. Possibile che tali reati meritassero pene più dure degli omicidi? Alzò le spalle, si girò, e si incamminò con il gruppo che abbandonava il reparto di isolamento del carcere.
Era buio. Buio e silenzioso. Lidia respirava. E pensava. Piangeva, singhiozzando silenziosamente. Non poteva fare altro. Cominciò a sentire il sistema di sopravvivenza alimentarla, mandandole nello stomaco qualche liquido nutritivo. Effettivamente, la fame le era passata. In completa autonomia, il sistema raccoglieva i suoi dati vitali, effettuava pulizie approfondite del suo intestino. Immobile, imbavagliata, incatenata in una cella elettronica. A volte, pensava, forse era esattamente quello che aveva sempre desiderato segretamente. Ma ora era drammatico. Nessuno sapeva che fine avesse fatto. Forse solo Valentina, ma.. non sapeva cosa pensare di lei.
Con un lieve fremito, la cella si mosse. Era arrivato il momento di cambiare posto. Forse, l’unica cosa che Lidia poteva fare, era contare il numero di spostamenti della cella. Ma…
.. all’improvviso, sentì qualcosa colpirla in volto. Uno schiaffo. “Lidia??”. Sentì chiamare. Aprì lentamente gli occhi… e si ritrovò incatenata al palo al quale si era legata da sola, forse alcune ore prima. “Lidia.. sei svenuta.. mi dispiace.. ho avuto un contrattempo”. Era la voce di Padrone Mauro.

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